In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il Comitato "Appoggiati a Me" propone alla vostra attenzione questo articolo che affronta questo delicatissimo tema soffermandosi, in modo particolare, sui casi in cui viene coinvolta anche la disabilità.
Sebbene negli ultimi anni l’attenzione collettiva riguardo al
fenomeno della violenza sulle donne sia sensibilmente cresciuta, rimane
ancora poco visibile la violenza rivolta alle donne con disabilità.
Per comprendere questo specifico aspetto del fenomeno, è necessario
tenere presente che, essendo la violenza l’esercizio di un potere
oppressivo, tale potere si esercita più facilmente nei confronti dei soggetti più vulnerabili,
ed essendo le donne con disabilità (soprattutto quelle con disabilità
psichica) più vulnerabili delle altre, esse risultano più esposte al
fenomeno in questione.
A questa indicazione preliminare si devono aggiungere diverse
ulteriori riflessioni inerenti la disabilità. Occorre considerare
infatti che spesso le donne con disabilità sono vittime di una discriminazione multipla,
ingenerata dall’essere simultaneamente sia donne che disabili. Alcune
disabilità, poi, possono comportare dei limiti d’autonomia superabili
solo attraverso un’attività di assistenza prestata da altre persone e
quest’ultimo aspetto comporta che le persone con disabilità grave o
gravissima si ritrovino costantemente “nelle mani altrui.
«Mani esperte, devote, mani disposte ma straniere. […] Mani
materne, mani matrigne, mani benedette, mani maledette, mani necessarie,
mani indispensabili! Mani! Mani! Inconsapevoli mani da cui spesso mi
sento come scancellata, che del mio corpo leggono i bisogni, mai i
desideri…», scriveva Paola Nepi, una donna con disabilità, nel monologo Le mani addosso (Firenze, Edizioni della Meridiana, 2012, pp. 18-19).
Questa circostanza fa sì che le persone con disabilità (sia gli uomini
che le donne) possano essere vittime di forme di violenza specifiche,
connesse alla dipendenza dal lavoro di cura. Prestare
assistenza senza prestare attenzione alla persona è, ad esempio, una
forma di violenza specificamente legata alla condizione di disabilità. Altri esempi
sono l’essere considerati asessuati, l’essere guardati con
commiserazione, venire ignorati, suscitare paura, l’essere considerati
incapaci di vivere le situazioni tipiche dell’età adulta (lavorare,
avere una vita amorosa/sessuale, divenire genitore), l’essere sottoposti
a sterilizzazione forzata, la presunzione che la condizione di
disabilità sia incompatibile con la felicità, la gioia, la bellezza e
altri aspetti positivi della vita, ridurre la persona alla sua
disabilità ecc.
Pertanto, quando si parla di violenza sulle donne, è importante
integrare le consuete considerazioni che vengono generalmente fatte su
questo fenomeno, con quelle specificamente connesse alla disabilità. Se ad esempio colui o colei che esercita la violenza è il caregiver [“assistente di cura”, N.d.R.] della
donna con disabilità, non sarà sufficiente ospitare la donna in un
luogo protetto, sarà anche necessario fornire un servizio di assistenza
personale, e accertarsi che il luogo protetto sia privo di barriere.
La violenza sulle donne (disabili e non) è un fenomeno culturale,
e per sradicarlo è necessario lavorare su un immaginario collettivo che
tende ancora a negarlo o a giustificarlo. Per questo motivo non basta
parlare di violenza, ma si deve anche prestare attenzione al linguaggio utilizzato e agli stereotipi
comunemente associati alla violenza sulle donne, alle donne stesse e
alle persone con disabilità (nel caso che la vittima di violenza sia una
donna disabile).
Si deve sicuramente evitare di trasformare la lotta alla violenza in una guerra tra i sessi. Non è vero che gli uomini sono violenti e cattivi per natura, né, viceversa, che le donne siano per natura non
violente, buone e abbiano ragione a prescindere. Uomini e donne sono
sottoposti sin da quando nascono a un processo di socializzazione che
definisce in modo rigido la femminilità e la mascolinità e i differenti
ruoli ad esse associati. Finché quindi continueremo ad associare la
femminilità alla dolcezza, alla docilità e alla disponibilità, e la
mascolinità alla forza, all’irrequietezza e al dominio, ci esporremo al
rischio di confondere la cultura con la natura, sino ad
arrivare ad affermare che la violenza degli uomini sulle donne è
fisiologica e immutabile perché connaturata all’essere maschi. Questo
non è corretto, e chi parla di violenza deve stare bene attento/a a non
veicolare questo tipo di messaggio.
È vero invece che spesso la violenza è ingenerata proprio dalla mancanza
di corrispondenza tra le aspettative suscitate dagli stereotipi di
genere appresi nel processo di socializzazione e la realtà. Dunque sono
proprio gli stereotipi di genere quelli che devono essere cambiati
(destrutturati) e, per fare questo, la collaborazione maschile non è solo auspicabile, è indispensabile.
Va inoltre contrastata la tendenza a raccontare gli episodi di violenza dal punto di vista dell’aggressore o
del femminicida. Parlare di “delitto passionale”, o usare espressioni
come «l’ha uccisa perché voleva lasciarlo», oppure «l’ha violentata
perché aveva la minigonna», significa riproporre acriticamente il punto
di vista maschile, suggerendo una lettura che tende a giustificare
l’atto violento (“se lei non avesse provato a lasciarlo, sarebbe ancora
viva”; “se lei non si vestiva in un dato modo, non sarebbe successo
niente”…).
Tali espressioni rafforzano l’idea – sbagliata ma ancora molto diffusa –
che i delitti e la violenza abbiano qualcosa a che fare con l’amore e
la passione, e che la vittima abbia delle corresponsabilità negli eventi
che l’hanno trasformata in un bersaglio di violenza.
Sbagliato è anche raccontare la violenza sulle donne ricorrendo a espressioni come “raptus” o “follia”,
non solo perché quelli che vengono descritti nelle cronache dei media
come episodi estemporanei sono spesso il momento culminante di una
violenza ripetuta e crescente, ma anche perché quelle parole negano la matrice culturale
della violenza sulle donne e sono deresponsabilizzanti (se nel momento
in cui si è verificato il fatto l’aggressore non era in sé, perché colto
da un raptus o da follia improvvisa, tutto sommato non è così
colpevole, e neppure tanto responsabile).
È dunque importante che chi parla di violenza sulle donne privilegi il punto di vista della donna,
raccontando qualcosa di lei, chiamandola per nome (ove è possibile), o
comunque con pseudonimi che ne sottolineino l’individualità, e non con
espressioni come “la moglie”, “la fidanzata”, “la compagna”, “la
sorella”, “la figlia”, “l’amica”, o “l’ex moglie”, “l’ex fidanzata”,
“l’ex compagna”, ecc.
Le violenze più frequenti avvengono in famiglia.
Anche nel caso in cui la vittima di violenza (o di femminicidio) sia una
donna con disabilità, occorre evitare di presentarla in modo passivo o
pietistico: è vero che ha subito violenza, ma va sottolineato che lei è una persona con dei diritti, resa più vulnerabile dalla mancanza di servizi adeguati e da quel pregiudizio
che considera ancora la famiglia come il luogo più sicuro e i familiari
i soggetti più adatti a prestare assistenza a una persona con
disabilità. Non è detto invece che i familiari siano sempre i soggetti
più adatti: spesso sono semplicemente gli unici disponibili. La mancanza o la scarsità di opzioni alternative alla famiglia e ai caregiver familiari
rende pertanto più problematica la risoluzione delle situazioni in cui
la vittima di violenza è una donna con disabilità.
Va inoltre tenuto presente, anche se dovrebbe essere più raro, che talvolta quella che subisce violenza è proprio la caregiver,
sottoposta a continue manipolazioni e ricatti affettivi agiti dalla
persona con disabilità (in genere maschio, ma non necessariamente).
E ancora, una riflessione specifica andrebbe fatta sulle donne ricoverate negli istituti,
luoghi nei quali i rapporti di potere tra il personale e gli/le ospiti
sono talmente sbilanciati da far crescere in modo esponenziale il rischio di violazione dei diritti umani, di discriminazione e di violenze di ogni tipo.
Secondo un rapporto del Parlamento Europeo di qualche anno fa, circa l’80%
delle donne con disabilità istituzionalizzate sono esposte a rischio di
violenza. Una corretta divulgazione su questi temi non può pertanto
prescindere da una conoscenza generale del fenomeno della disabilità, e
dello specifico contesto in cui si è svolto l’episodio di violenza.
Riportare, quando sono disponibili, dati e statistiche, o fare
collegamenti con episodi simili (magari chiedendo supporto
all’associazionismo di settore), è utile a descrivere l’ampiezza e le
caratteristiche del fenomeno.
Un aspetto della comunicazione sul quale anche le associazioni di
donne commettono – sia pure in buona fede – frequenti errori è quello
delle immagini. È infatti abbastanza facile vedere
campagne contro la violenza sulle donne che mostrano corpi e volti di
donne tumefatti, donne in atteggiamento difensivo che si riparano in
qualche modo, donne spettinate ridotte in un angolo con i vestiti
strappati ecc.
Anche riguardo a queste immagini si può osservare che esse mostrano ciò che – presumibilmente – vede l’aggressore, e non il punto di vista della donna aggredita. In secondo luogo, come ha ben illustrato Giovanna Cosenza, docente di Semiotica presso l’Università di Bologna) in numerose occasioni, «non si combatte la violenza con immagini che la esprimono. Né si fanno uscire le donne dal ruolo di vittime se si insiste a rappresentarle come vittime.» (G. Cosenza, «Stai zitta, cretina». E come sempre, le campagne contro la violenza esprimono violenza, in «Dis.Amb.Iguando», 24 novembre 2011).
Un altro errore frequente è quello di scegliere come testimonial contro la violenza solo donne belle,
come se per promuovere una causa fosse necessario utilizzare la
bellezza, o come se a subire violenza fossero solo le donne avvenenti.
Non è così. Paradossalmente si potrebbe suscitare l’effetto di rendere
la violenza seducente, o di rafforzare il pregiudizio secondo cui le
donne che non corrispondono a certi canoni estetici non siano toccate da
questo fenomeno.
Forse bisognerebbe provare ad uscire dai binari delle immagini scioccanti o seducenti, incentrandosi di più sulla narrazione (molto interessante, sotto questo profilo, è Ferite a morte, il progetto teatrale realizzato recentemente da Serena Dandini), oppure spostando l’attenzione sull’aggressore (che è ancora poco rappresentato), o, ancora, su un simbolismo inconsueto: come non emozionarsi davanti a One billion rising for justice, la danza globale promossa da Eve Ensler?
Realizzata anche in molte città d’Italia lo scorso 14 febbraio, questa danza ha permesso che migliaia di donne e di uomini insieme potessero esprimere un no collettivo alla violenza utilizzando tutto il corpo. Gioia e vitalità contro la violenza: geniale!
Infine, nel raccontare i dettagli delle violenze, è
importante essere chiari, completi e precisi, ma non scadere nel
morboso e nel sensazionalistico. Occorre inoltre, ed è importantissimo,
prestare attenzione alla riservatezza della vittima e,
dunque, evitare di rivelare particolari che potrebbero renderla
riconoscibile (nei casi in cui è richiesto l’anonimato), e
rintracciabile (qualora sia accolta in un luogo protetto).
Sulla comunicazione e la divulgazione in tema di violenza sulle donne
sono state scritte molte cose interessanti. Quelli indicati sono solo
dei cenni utili ad aprire una riflessione che meriterebbe ulteriori
approfondimenti. Non sappiamo ancora quale sia il modo migliore per
raccontare la violenza, quel che è certo è che essa va raccontata, perché solo raccontandola la renderemmo visibile, ne acquisiremmo consapevolezza, e potremmo prevenirla efficacemente.